Nel 1958 l’Italia decise di chiudere i bordelli con la Legge Merlin, sancendo la fine delle case di tolleranza e del coinvolgimento statale nella regolazione della prostituzione. L’intento era nobile: liberare le donne dallo sfruttamento legalizzato e tutelarne la dignità. Ma oggi, oltre sessant’anni dopo, quella legge appare come un reliquato ideologico, incapace di affrontare la complessità del presente.
Dalla legalità al sommerso: il regno dell’ipocrisia
In Italia la prostituzione non è reato, ma qualsiasi forma di organizzazione lo è: non puoi affittare un locale, non puoi lavorare insieme ad altre persone, non puoi neanche promuoverti liberamente. Puoi solo vendere sesso da sola, in silenzio, sperando di non disturbare nessuno.
Il risultato? L’intero fenomeno è stato spinto sotto il tappeto, lasciando campo libero a:
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racket criminali,
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sfruttamento,
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assenza totale di diritti e tutele per chi esercita.
Lo Stato, invece di regolare, si gira dall’altra parte.
Clienti in fuga: il turismo sessuale oltreconfine
Negli ultimi decenni, migliaia di italiani hanno trovato una via d’uscita al confine: Austria, Svizzera, Slovenia e Germania hanno legalizzato e regolamentato la prostituzione, creando spazi sicuri e strutturati.
A pochi chilometri da Tarvisio, ad esempio, sorge uno dei bordelli più grandi d’Europa, il Wellcum, costruito appositamente per accogliere clienti italiani che cercano ciò che in patria è vietato. Una fuga organizzata verso un piacere che, qui, non si può neanche nominare.
Un dito medio alzato ai moralisti d’importazione, ai Savonarola d’ogni epoca, e all’ipocrisia di Stato che si illude di “combattere il degrado” cancellando i luoghi in cui il sesso è almeno visibile, e dunque controllabile.
Chi vince? Chi perde?
Vincono:
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le organizzazioni criminali,
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gli imprenditori esteri del sesso regolamentato,
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i moralisti che si sentono eticamente superiori.
Perdono:
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le sex worker italiane, abbandonate all’insicurezza,
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lo Stato, che rinuncia a milioni di euro in tasse e contributi,
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i cittadini, che vivono in un contesto privo di regole chiare.
Serve una nuova legge, non nuovi divieti
Regolamentare non significa incoraggiare, significa governare ciò che già esiste. Un approccio laico e realistico dovrebbe:
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legalizzare e regolamentare il sex work libero e consapevole,
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offrire diritti, tutele e percorsi di uscita,
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distinguere la prostituzione dalla tratta,
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combattere lo sfruttamento con strumenti moderni, non con divieti inefficaci.
Continuare a non decidere equivale a decidere per il peggio. È tempo che l’Italia affronti il tema con coraggio, pragmatismo e rispetto per tutte le parti coinvolte.

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