Il freno invisibile: perché l’imprenditoria italiana non decolla


In Italia, certi proverbi non sono soltanto frasi tramandate dai nonni: sono schegge di mentalità che, ripetute e interiorizzate per generazioni, finiscono per influenzare il modo in cui si guarda al lavoro, al rischio e alla ricchezza. Dire “Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quello che lascia e non sa quello che trova” può sembrare un invito alla prudenza, ma per un imprenditore diventa un monito a non cambiare, a non innovare. Allo stesso modo, l’ironico “La migliore società è formata da meno di tre soci e in numero dispari” nasconde un messaggio pericoloso: fidati solo di te stesso, non condividere il controllo, non cercare alleanze.

Questo atteggiamento affonda le radici nella storia del Paese. Per secoli l’Italia è stata un mosaico di piccoli Stati, ognuno con una propria economia locale autosufficiente. Nelle campagne, la sopravvivenza dipendeva dalla capacità di proteggere ciò che si possedeva, non di rischiare per ottenere di più. Al Sud, la lunga influenza cattolico-spagnola consolidò una visione della ricchezza come patrimonio da custodire — terreni, immobili, beni di famiglia — piuttosto che come capitale da far circolare. Il commercio e l’impresa, soprattutto se comportavano esposizione pubblica o rischio finanziario, erano visti con sospetto, quasi come attività moralmente meno nobili del possesso fondiario.

Quando arrivò l’industrializzazione, l’Italia vi entrò tardi e in modo disomogeneo. Il Nord si sviluppò più rapidamente, trovando nel tessuto urbano e nella vicinanza con l’Europa centrale un terreno fertile per la manifattura e le esportazioni. Il Sud restò in larga parte ancorato a un’economia agraria e di rendita, con poche industrie di grande scala. Questa differenza si riflette ancora oggi nella struttura produttiva nazionale, che assomiglia a una piramide: in cima, pochissimi grandi gruppi industriali capaci di competere a livello globale; al centro, una fascia di piccole e medie imprese competitive ma spesso legate a mercati regionali; alla base, una distesa sterminata di microimprese familiari, con risorse limitate e scarsa propensione all’investimento.

Il modello familistico è il vero marchio di fabbrica dell’imprenditoria italiana. La decisione resta nelle mani del fondatore o dei suoi eredi, e il passaggio generazionale raramente prevede l’inserimento di manager esterni. Se figli o nipoti sono incapaci, l’azienda rallenta o declina, ma il timore di “perdere il controllo” supera la necessità di garantire la continuità aziendale. Questo si combina a una diffidenza atavica verso i soci e le partnership strategiche: meglio rimanere piccoli e autonomi che rischiare conflitti o divisioni degli utili.

La cultura del rischio è un altro nodo critico. In Italia il fallimento è visto come una macchia da nascondere, non come un’esperienza da cui imparare. Nei Paesi anglosassoni, al contrario, un imprenditore che ha fallito viene spesso considerato più esperto, perché ha già affrontato ostacoli reali. Questa differenza di mentalità ha conseguenze enormi: altrove si tende a puntare in alto e a scalare velocemente, mentre qui si preferisce crescere piano, mantenendo il controllo totale.

Il confronto internazionale è illuminante. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, l’ambiente è più favorevole a chi vuole crescere: il capitale di rischio è abbondante, le istituzioni sostengono l’innovazione e il fallimento non comporta una condanna sociale. In Germania, le aziende familiari — il famoso Mittelstand — riescono comunque a strutturarsi in modo manageriale e a collegarsi strettamente con la ricerca e lo sviluppo. In Israele, una nazione molto più piccola, la cultura dell’iniziativa ha trasformato la scarsità di risorse in un trampolino per la creazione di startup innovative capaci di competere in tutto il mondo.

L’Italia, dal canto suo, resta un Paese di straordinaria creatività, capace di produrre eccellenza nel design, nella moda, nella gastronomia, nella meccanica di precisione. Ma queste qualità, se non accompagnate da una visione imprenditoriale aperta e ambiziosa, rischiano di rimanere confinate nel piccolo laboratorio o nella bottega di famiglia.

Cambiare rotta richiede un lavoro culturale prima ancora che economico. Serve introdurre l’educazione imprenditoriale nelle scuole, ridurre lo stigma del fallimento, incentivare le reti tra imprese e l’apertura a manager esterni. Soprattutto, occorre scardinare quella prudenza difensiva che ha avuto senso in un’economia di sussistenza, ma che oggi è un freno invisibile alla crescita.

Finché continueremo a credere che sia meglio non lasciare la strada vecchia per la nuova, resteremo a guardare gli altri prendere rotte che noi non osiamo tracciare. E allora, più che un problema economico, sarà una questione di mentalità collettiva, una di quelle profezie che si autoavverano e che nemmeno il più geniale degli imprenditori riuscirebbe a smentire

Un Patto per il Vesuvio

Dalla frammentazione alla rinascita: una strategia unitaria per i 13 Comuni e il Parco Nazionale


1. Introduzione – Un patrimonio unico, un’occasione da non sprecare


Il Parco Nazionale del Vesuvio è una delle icone naturali e culturali più riconosciute al mondo. Non si tratta soltanto di un vulcano, ma di un territorio che racchiude biodiversità, storia, arte, tradizioni agricole e un potenziale turistico enorme. Il 2024 ha segnato un traguardo storico: 617.524 visitatori hanno raggiunto il Cratere, con un incremento di quasi 86.000 presenze rispetto all’anno precedente. È un segnale chiaro: l’interesse verso il Vesuvio è in crescita, e la Campania sta vivendo una stagione di rinnovata attrattività internazionale.

Eppure, a questo boom di visitatori non corrisponde un beneficio distribuito in modo uniforme sui 13 Comuni che compongono il Parco: Ercolano, Torre del Greco, Trecase, Boscoreale, Boscotrecase, Terzigno, San Giuseppe Vesuviano, Sant’Anastasia, Ottaviano, Somma Vesuviana, Pollena Trocchia, Massa di Somma e San Sebastiano al Vesuvio. Ogni Comune sembra muoversi per conto proprio, senza una regia unitaria che sappia valorizzare il territorio come sistema integrato.

Il risultato è che il Parco, nato per essere un volano di sviluppo, rischia di essere percepito come un ente autoreferenziale, utile soprattutto a garantire poltrone nel Consiglio di Amministrazione a figure politiche locali rimaste senza incarichi. La mancanza di un disegno condiviso impedisce di sfruttare pienamente la visibilità internazionale del Vesuvio e di trasformarla in occupazione, reddito e crescita sostenibile.


2. Le criticità – Una macchina che non lavora in squadra

Le difficoltà partono dalla governance. Oggi le nomine all’interno dell’ente Parco rispondono più a logiche politiche che a criteri di competenza. Questo genera una gestione debole, con poca trasparenza e scarsa capacità di pianificazione a lungo termine.

Sul piano territoriale, la frammentazione è evidente: non esiste un vero piano intercomunale che metta in rete le risorse, coordini gli eventi e presenti il Vesuvio come un’unica destinazione turistica. Ciascun Comune sviluppa iniziative proprie, talvolta in concorrenza con quelle dei vicini. La conseguenza è una perdita di forza contrattuale anche quando si tratta di accedere ai fondi europei e al PNRR: invece di presentare progetti con massa critica, si moltiplicano micro-proposte che raramente riescono a vincere i bandi più importanti.

A tutto questo si aggiunge una valorizzazione incompleta delle risorse. Il patrimonio naturalistico e culturale non viene raccontato come un’esperienza integrata: un visitatore che raggiunge il cratere spesso non viene guidato a scoprire i sentieri meno noti, i borghi, le aziende agricole o le botteghe artigiane. L’infrastruttura turistica è disomogenea: in alcuni Comuni mancano collegamenti efficienti, segnaletica chiara e punti di informazione adeguati. La promozione, quando c’è, è frammentata e poco riconoscibile a livello internazionale.


3. Una nuova visione – Dal vulcano simbolo alla rete territoriale

Ribaltare questa situazione è possibile. La condizione imprescindibile è creare una regia unica, capace di far lavorare insieme i 13 Comuni e l’Ente Parco verso obiettivi concreti e misurabili.

Il primo passo è un Patto per il Vesuvio: un accordo vincolante tra amministrazioni locali che metta nero su bianco un programma pluriennale, definisca responsabilità e tempi, e preveda indicatori di risultato chiari. Il Parco deve tornare a essere un motore di sviluppo, e non un soggetto neutro che si limita ad amministrare vincoli e permessi.

Il patto dovrebbe poggiare su tre pilastri. Il primo è la governance per competenze: i vertici del Parco e le figure strategiche devono essere scelti con procedure trasparenti e basate su merito ed esperienza, non su appartenenza politica. Il secondo è la strategia unitaria: un Masterplan del Vesuvio che metta in rete sentieri, siti culturali, aziende agricole e artigiane, eventi e servizi turistici, costruendo un vero brand “Vesuvio” riconoscibile nel mondo. Il terzo è la partecipazione attiva della comunità: cittadini, imprese e associazioni devono avere spazi e strumenti per proporre idee, monitorare l’operato e partecipare alle decisioni, ad esempio con una consulta permanente e un bilancio partecipativo.


4. Come trasformare le idee in risultati

Il “Patto per il Vesuvio” non deve essere un manifesto di buone intenzioni, ma un programma operativo. Significa che entro il 2025 si può avviare l’ufficio unico per intercettare fondi europei e nazionali, lanciare il marchio territoriale “Vesuvio” per i prodotti tipici e avviare i primi progetti di itinerari integrati.

Nel 2026 dovrebbero già essere percorribili i primi 20 chilometri di rete sentieristica collegata a cantine, agriturismi, musei e laboratori artigiani, accompagnati da un grande evento diffuso che tocchi tutti i Comuni. Entro il 2027 la rete va estesa a 50 chilometri, con un aumento tangibile dei visitatori internazionali. Nel 2028, la valutazione degli obiettivi servirà a rinnovare e rilanciare il patto per un nuovo ciclo di crescita.


5. Perché agire adesso

Il Vesuvio è già sotto i riflettori, grazie ai numeri record di presenze e alla crescente curiosità di un turismo internazionale che cerca esperienze autentiche. La Campania, nel 2022, ha superato i 18 milioni di presenze turistiche complessive, con una permanenza media di 3,4 notti e quasi la metà dei visitatori provenienti dall’estero. È una finestra di opportunità che non resterà aperta per sempre.

Se i 13 Comuni continueranno a muoversi in ordine sparso, il boom resterà un fenomeno episodico, e i benefici economici si concentreranno solo su alcune aree. Se invece il territorio sceglierà di lavorare come una rete unica, il Vesuvio potrà diventare un modello di sviluppo sostenibile, capace di generare occupazione, proteggere l’ambiente e rafforzare l’identità locale.


In sintesi, il Patto per il Vesuvio è una sfida e un’opportunità. È il passaggio dal raccontare un vulcano al raccontare un territorio intero, coeso e consapevole della propria forza. È la possibilità di trasformare un simbolo in una strategia, e un’icona in un’economia viva.

L’Amore Vero è per Sempre


Ti amo da lontano, cara Politica
Ti guardo come si guarda una donna bellissima che non si può avere, eppure il cuore non smette di battere. Ogni giorno osservo la stanza dei bottoni, sapendo che la Provvidenza mi ha lasciato nella stanza accanto, a imparare i segreti del tuo mondo senza poterlo mai toccare davvero.


Un amore impossibile, ma reale
Amo la Politica con una passione profonda, intensa, dolorosa. È un sentimento che brucia dentro, come l’amore impossibile per qualcuno che vorresti conquistare ma temi il rifiuto.

Il cognome sbagliato, il quartiere sbagliato, la lista perdente: tutti dettagli che pesano come macigni e che mi ricordano costantemente che, per ora, non posso essere parte del gioco principale.


La Provvidenza e il mio ruolo nella pubblica amministrazione
Eppure, la Provvidenza ha scelto per me un ruolo tecnico nella pubblica amministrazione. Una posizione che mi permette di essere vicino alla Politica senza esserne protagonista.

Questo lenisce un po’ il dolore, ma accresce anche la frustrazione: sapere che posso leggere e capire le delibere, distinguere una determina da un decreto, senza però avere la possibilità di decidere davvero, è una prova di pazienza e resilienza.


Cosa sarebbe stato altrove
A volte penso a cosa sarebbe stato se fossi andato al Nord come insegnante precario, obbligato a seguire percorsi che non mi appartengono, lontano dalle mie materie, lontano dalla mia vocazione.

In quel senso, la Provvidenza ha avuto cura del mio talento, impedendomi di disperderlo in percorsi che non avrebbero rispecchiato la mia vera natura.


Prepararsi al momento giusto
E allora resto qui, ad osservare, a studiare, a prepararmi. La mia passione non è svanita; è semplicemente in attesa. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, affinando le competenze che un giorno potrebbero permettermi di entrare in quella stanza che oggi guardo da lontano.


La speranza 
Possa Dio — se davvero ha voluto tutto questo — indicarmi cosa ha preparato per me. Perché io sono pronto ad ascoltare.

Come sosteneva Giorgio La Pira:
“L’impegno politico (…) è un impegno di umanità e di santità: è un impegno che deve potere convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità.”

E io, da lontano, continuerò ad amarti, cara Politica, con la certezza che l’amore vero — quello autentico, quello che nasce dal cuore e non dai titoli o dalle opportunità — è per sempre.


Call-to-action
Se anche tu senti la passione per la Politica, condividi questo testo. Racconta la tua storia, il tuo amore segreto, la tua vocazione: insieme possiamo far sentire la voce di chi ama davvero questo mondo.

Leone XIV: il ruggito di Agostino nella Chiesa ferita

Un’elezione che segna la storia
L’8 maggio 2025 il Conclave ha sorpreso ancora una volta il mondo. Dopo il “papa venuto dalla fine del mondo”, l’argentino Jorge Mario Bergoglio, la Chiesa ha scelto per la prima volta un pontefice statunitense, Robert Francis Prevost, che ha assunto il nome di Leone XIV. Con lui si apre un’epoca nuova: un pastore che porta sulle spalle non soltanto la memoria della Chiesa nordamericana, con la sua potenza e le sue contraddizioni, ma anche la spiritualità agostiniana, che segna un ingresso inedito nella storia papale. È, insieme, continuità e rottura: la continuità di un cristianesimo che cerca di parlare a tutte le culture, la rottura di un’istituzione che da secoli non aveva mai guardato a Chicago per trovare il suo vescovo di Roma.

Non è un caso che la sua elezione cada l’8 maggio, giorno in cui la Chiesa recita la Supplica alla Madonna di Pompei, invocando protezione e speranza, e allo stesso tempo celebra San Michele Arcangelo, il principe delle milizie celesti, simbolo di forza, giustizia e lotta contro le tenebre. Questo doppio richiamo spirituale suggerisce che Leone XIV non è soltanto un Papa: è un pastore chiamato a proteggere, guidare e difendere una Chiesa ferita, con la saggezza di Maria e il coraggio del guerriero celeste.


Il peso di Agostino
Che un agostiniano guidi oggi la Chiesa non è dettaglio marginale. Agostino fu il pensatore dell’inquietudine, della conversione continua, della tensione tra la città di Dio e la città terrena. Leone XIV porta nel cuore questo lascito: non un cattolicesimo statico, ma un cristianesimo che vive del conflitto tra luce e tenebra, tra fragilità e grazia. Il suo motto, In illo uno unum, è la sintesi di questa vocazione: nell’Uno ritrovare l’unità. La sua voce richiama la necessità di ricomporre ciò che è diviso, di offrire coesione in un’epoca in cui la Chiesa appare spesso lacerata al suo interno, frammentata in opposte visioni teologiche e pastorali.

Le ferite della Chiesa
Ma Leone XIV non eredita un giardino pacifico: davanti a lui ci sono scandali che hanno devastato la credibilità ecclesiale. Dalle ombre della pedofilia ai problemi di trasparenza finanziaria, dalle lotte intestine tra correnti curiali alla disaffezione crescente di intere generazioni, la Chiesa del XXI secolo si presenta come una casa ferita. È qui che il ruggito del Leone diventa necessario. Non un ruggito di potere, ma di verità: la capacità di affrontare le ferite senza nasconderle, di guardare le vittime negli occhi, di restituire dignità dove troppo a lungo ha regnato l’imbarazzo del silenzio.

Un pastore statunitense in un mondo globale
La provenienza americana del nuovo Papa non è priva di significati. Con Francesco, la Chiesa aveva incontrato la voce del Sud del mondo, la teologia delle periferie, la forza della misericordia. Con Leone XIV si apre la stagione di una Chiesa che dialoga con la modernità occidentale nel suo volto più potente e, insieme, più fragile. L’America del Nord è culla di libertà e democrazia, ma anche di individualismo radicale e secolarizzazione crescente. Portare il Vangelo da quella terra fino a Roma significa assumere una responsabilità simbolica: mostrare che la fede non è solo rifugio delle periferie, ma anche sfida per i cuori delle metropoli.

Il ruggito e il belato
E tuttavia, il destino di questo pontificato resta sospeso su un bivio. Saprà Leone XIV ruggire, e dare voce a una Chiesa che torni a essere coscienza critica del mondo, capace di parole limpide e coraggiose? Oppure, schiacciato dal peso degli scandali e dai giochi di potere, finirà per belare, riducendo la sua voce a quella di un gregge impaurito? L’immagine del Leone si carica qui di valore profetico: da essa dipende se il suo sarà ricordato come il pontificato della rinascita o come quello dell’ulteriore smarrimento.

Una parabola profetica
Nella foresta del nostro tempo, dove il rumore delle ideologie copre spesso il silenzio del cuore, il ruggito di Leone XIV potrebbe risuonare come un annuncio di speranza. Non un ruggito di condanna, ma di resurrezione: la voce di un padre che non nasconde, ma che consola, che denuncia il male e insieme abbraccia il peccatore. Un Papa agostiniano non può che vivere questa tensione: trasformare le inquietudini della Chiesa in cammino di grazia. Se riuscirà, il suo nome rimarrà nella storia non come un’etichetta numerica, ma come il simbolo di un’epoca in cui la Chiesa, ferita e vacillante, ritrovò la forza di alzare la voce.

Il segno del tempo
Forse, senza saperlo, i cardinali hanno consegnato alla storia più di un semplice nuovo pontefice. Hanno aperto il tempo di un segno. Leone XIV, con il suo nome antico e il suo cuore agostiniano, appare come la figura chiamata a decidere se la Chiesa deve tacere per sempre sotto il peso delle sue vergogne, oppure rialzarsi e ruggire come il leone di Giuda, testimone di Cristo risorto.

L’8 maggio, giorno della sua elezione, porta con sé un doppio segno: la protezione materna della Madonna di Pompei e il coraggio guerriero di San Michele Arcangelo. È come se il cielo stesso avesse voluto segnare questa scelta con un gesto di consolazione e forza insieme. Leone XIV non è soltanto un uomo: è un segno consegnato al tempo, un leone in una Chiesa ferita, sotto lo sguardo vigile e consolatore della Madre di Dio e dell’angelo guerriero. Sarà ricordato per ciò che farà, ma ancor di più per ciò che avrà osato essere.

Quando il tuo quartiere ti tiene in panchina

«Ma chi ti vota, scusa?».
Era la domanda che mi fece mio cugino, con un sorrisetto ironico, quando, anni fa, accennai all’idea di candidarmi. Non era una provocazione cattiva. Era realismo da bar del paese. Tradotto: “Qui ti conoscono tutti, e proprio per questo non ti voteranno mai”.

Io, in fondo, lo sapevo. In quel condominio costruito da mio nonno materno, ogni porta nascondeva una memoria: una litigata, un favore, una parola detta male vent’anni fa. Mio padre, che non era del posto, era sempre rimasto un corpo estraneo. E io, cresciuto lì, avevo imparato presto che la reputazione non era un vestito cucito su misura: era un cappotto ereditato, con dentro odori, macchie e tasche rotte che non avevi scelto tu.

Il quartiere, poi, era un posto strano: ti conoscevano tutti, ma nessuno ti vedeva davvero. Era come se fossi sempre rimasto il ragazzino che correva dietro al pallone nel cortile, e non l’adulto che ora sapeva distinguere una delibera da una determina senza dover consultare un manuale.

Un mio amico ci aveva provato sul serio. Volantini, porta a porta, strette di mano. Gli elettori? Parentado e vicini. I commenti più frequenti:
«Ah, ma tu sei il nipote di Gennaro… come sta tuo zio?»
Oppure: «Bravo ragazzo, ma… la politica è un’altra cosa».
Alla fine prese meno voti del numero dei tavolini del bar all’angolo.

Fu lì che capii una cosa: in politica, come nel calcio, non è detto che la partita tu debba giocarla nello stadio di casa. A volte, per vincere, bisogna cambiare campo.

Quando mi trasferii nella città dove vivo oggi, non ci pensavo ancora. Ma col tempo, tra un’assemblea di quartiere e un evento culturale, mi resi conto che lì nessuno sapeva nulla di mio nonno, delle liti condominiali o di chi avesse litigato con chi negli anni ’80. Qui potevo parlare di progetti senza che qualcuno pensasse al cognome prima ancora di ascoltare la proposta.

Conosco un ex collega che ha fatto così. Lavorava come impiegato in un piccolo comune, poi si è spostato altrove. Ha iniziato a dare una mano a un comitato civico, ha organizzato un festival con due soldi ma tanta inventiva. In due anni, il suo nome era associato a cose fatte bene, non a storie di famiglia. Quando si è candidato, la gente lo ha votato per quello che vedeva, non per quello che ricordava.

E allora ho capito: “nessuno è profeta in patria” non è una condanna, è una strategia di liberazione. Ti toglie dal recinto dei pregiudizi e ti mette in un campo dove le regole le riscrivi tu.
La politica, come l’amore, non è accontentarsi di chi capita. È andare a cercare chi davvero ti interessa, anche se significa fare chilometri, ricominciare da zero e, magari, scoprire che proprio lì puoi diventare titolare, dopo una vita in panchina.

Oltre la pena: educare per prevenire la violenza di genere

Quando, in un breve arco di tempo, arrivano notizie di due giovani donne uccise a pochi giorni l’una dall’altra, il dolore si mescola all’indignazione e alla consapevolezza che il problema è collettivo. A Messina, Sara Campanella, 22 anni, studentessa, è stata accoltellata a una fermata dell’autobus da un suo collega – uno studente dell’università – che la perseguitava da due anni . Poche ore dopo, a Roma, il corpo di Ilaria Sula è stato ritrovato in una valigia abbandonata nei pressi della capitale: anche lei aveva appena 22 anni, e il sospetto è rivolto a un ex fidanzato . Questi omicidi — portano a undici il numero delle vittime femminili in pochi mesi nel 2025 — hanno innescato in molte città italiane l’appello convinto a una “rivolta culturale”, non solo a modifiche legislative .



Quella di Sara e Ilaria non è che l’ultima in una serie di storie tragiche e potenti. A novembre 2023, Giulia Cecchettin, 22 anni, è stata assassinata dall’ex fidanzato con 75 coltellate e il suo corpo è stato nascosto in un burrone, avvolto in sacchi neri . La sua morte ha rappresentato uno spartiacque nel dibattito pubblico: migliaia di persone hanno partecipato al suo funerale, l’università le ha conferito una laurea postuma e il padre, Gino, ha fondato una associazione in suo nome per promuovere l’educazione e la prevenzione . Più ancora la sua sorella Elena ha scritto – con dolore e lucidità — sul Corriere della Sera che “i ‘mostri’ non sono malati, sono figli sani del patriarcato”, invitando tutti, e in particolare gli uomini, a interrogarsi sul proprio ruolo nella società patriarcale . Parole che hanno una forza dolorosa e liberatoria, e che squarciano la narrazione che confina la violenza a casi isolati o patologici.


E ancora, la giovane e purtroppo brevissima esistenza di Martina Carbonaro, 14 anni, uccisa a colpi di pietra dall’ex fidanzato nel maggio 2025, ha acceso i riflettori sull’allarme adolescenziale. Un passaggio doloroso e inquietante: la violenza che spesso viene considerata un problema dell'età adulta emerge anche nell’infanzia stessa, laddove i legami affettivi più fragili diventano motivo di tragedia . E non è isolato: secondo dati ANSA aggiornati a maggio 2025, in Italia ci sono stati almeno 16 femminicidi dall'inizio dell’anno, già di più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Accanto al caso di Martina, c’è quello di Teodora Kamenova, 47 anni, uccisa a Civitavecchia dal suo compagno .


Ogni volta che un femminicidio scuote le cronache, l’opinione pubblica reagisce con sgomento, dolore e rabbia. La domanda che ritorna sempre è: “Come possiamo fermare questa strage silenziosa?”. In molti invocano pene più severe, o almeno la certezza che quelle già previste vengano applicate senza esitazioni. È una reazione naturale, quasi istintiva: quando si resta senza parole davanti all’orrore, l’inasprimento del castigo sembra l’unico appiglio rimasto.

Eppure la storia mostra che la deterrenza penale, da sola, è un’illusione. Nel Settecento, nella Londra delle impiccagioni pubbliche, persino i furti erano puniti con la forca. Eppure la città pullulava di borseggiatori. Un celebre quadro dell’epoca ritrae una scena paradossale: mentre la folla assiste all’esecuzione di un ladro, un altro approfitta della distrazione per derubare un malcapitato. È un’immagine potente, che sintetizza meglio di mille discorsi l’impotenza della sola repressione: la pena può punire, ma non può prevenire se non si interviene a monte, sulle radici sociali e culturali del comportamento.

La violenza di genere non sfugge a questa logica. Il femminicidio non nasce mai come un fulmine a ciel sereno: è quasi sempre l’ultimo anello di una catena fatta di controllo, svalutazione, minacce e sopraffazioni, che affondano le loro radici in una cultura ancora impregnata di modelli patriarcali. L’idea che la donna sia “di proprietà” dell’uomo, che l’amore giustifichi la gelosia, che il rifiuto sia una ferita intollerabile, continua a influenzare la psicologia individuale e collettiva. Inasprire le pene senza scardinare questi schemi equivale a svuotare il mare con un cucchiaino.

È allora sulla prevenzione che bisogna investire. Prevenzione significa educazione, e l’educazione comincia molto prima dell’aula di tribunale. La scuola e la famiglia hanno una responsabilità decisiva. Ai bambini e ai ragazzi non basta insegnare la grammatica e la matematica: occorre trasmettere anche una grammatica delle emozioni. La psicoaffettività dovrebbe diventare una materia trasversale, che insegni a nominare le proprie fragilità, a riconoscere la rabbia, a gestire la frustrazione, ad accettare il “no” come parte integrante delle relazioni umane. In un mondo adulto spesso dominato dalla frustrazione, è fondamentale educare fin da piccoli a sopportare l’idea che non sempre gli altri la pensano come noi e che non tutto ci è dovuto.

Molti uomini che diventano carnefici non sono mostri nati dal nulla, ma persone incapaci di elaborare la fine di una relazione, incapaci di reggere il peso del rifiuto. È in quel vuoto emotivo che germina la convinzione di poter esercitare un controllo assoluto, fino alla violenza estrema. Una società che vuole davvero contrastare il femminicidio deve aiutare i ragazzi a crescere con la consapevolezza che amare non significa possedere e che il rispetto dell’altro è la prima forma di dignità di sé.

Accanto all’educazione, serve anche una rete di supporto concreta. Troppo spesso le avvisaglie di violenza restano inascoltate: denunce archiviate, segnali minimizzati, parole di allarme delle vittime lasciate cadere nel vuoto. La prevenzione passa anche da qui: dalla capacità delle istituzioni di reagire subito, di offrire protezione e ascolto tempestivi, di investire in centri antiviolenza e servizi sociali capaci di intercettare i rischi prima che diventino tragedie.

La giustizia penale resta necessaria, ed è giusto che chi uccide una donna paghi fino in fondo. Ma pensare che basti la paura del carcere a fermare il prossimo delitto significa illudersi. È solo un lavoro lungo, culturale e collettivo che può trasformare davvero la società. Educare alla libertà, insegnare il limite, diffondere modelli positivi di mascolinità e femminilità: questa è la vera sfida.

Il senso di impotenza che ci assale dopo ogni femminicidio non deve diventare rassegnazione. Al contrario, può essere la spinta a riconoscere che la violenza non è una fatalità, ma il prodotto di una cultura che possiamo cambiare. E che cambiare, lentamente ma radicalmente, è un dovere di tutti.

La legge, intanto, compie un passo importante: nel marzo 2025, il governo italiano ha approvato un disegno di legge che, per la prima volta, introduce nella normativa una definizione specifica di “femminicidio”, con pene fino all’ergastolo, nonché aggravanti e inasprimenti per stalking, revenge porn e violenza sessuale . Il segnale è forte, ma non basta. L’opposizione le ha dato il benvenuto, ma ha avuto il merito di ricordare che “solo la repressione non cambia la cultura” . E molti movimenti femministi l’hanno definita una mossa simbolica, lasciando aperto il nodo della discriminazione sistemica che accompagna la disparità anche nella scuola, nel lavoro, nelle relazioni quotidiane .

Il salto culturale non avviene per decreto. È un processo lento, che parte dall’educazione, dal riconoscimento delle fragilità e dagli strumenti di mediazione emotiva. Serve che la scuola diventi luogo di cura, non solo di conoscenza; che la famiglia diventi teatro di confronto, non di imposizione; che la politica investa nel tessuto sociale e non solo nella paura.

Fine vita: tra dignità e deriva. Il fragile equilibrio tra il non accanirsi e il non uccidere

In Italia, il tema del fine vita è uno dei più complessi e delicati dell’intero dibattito bioetico. La nostra legislazione non contempla una legge organica sull’eutanasia come avviene in altri Paesi, ma si regge su un insieme di norme e pronunce giurisprudenziali che, nel tempo, hanno cercato di bilanciare il diritto alla vita con quello all’autodeterminazione del paziente.

La legge 219 del 2017 ha rappresentato un passo importante, riconoscendo il diritto di ciascuno a rifiutare o interrompere i trattamenti sanitari, incluse idratazione e alimentazione artificiali, e introducendo le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT). Queste consentono di esprimere in anticipo le proprie volontà sulle cure, nel caso in cui in futuro non si fosse più in grado di comunicarle. È un testo normativo che sancisce il principio di non accanimento terapeutico, ma allo stesso tempo vieta qualsiasi atto diretto a provocare la morte.

Accanto a questa legge esiste anche la 38 del 2010 sulle cure palliative, che garantisce terapie finalizzate ad alleviare la sofferenza nelle fasi terminali della vita. Tra queste, la sedazione palliativa profonda è ammessa quando i sintomi non rispondono ad altri trattamenti e la malattia è ormai giunta alla fase conclusiva. È una pratica che non anticipa artificialmente la morte, ma riduce la coscienza del paziente fino al decesso naturale, offrendo sollievo dal dolore.

Un passaggio importante nella storia recente è arrivato con la sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale, nata dal caso di Marco Cappato e DJ Fabo.


CASO ITALIANO – DJ FABO E MARCO CAPPATO (2017)
Fabiano Antoniani, conosciuto come DJ Fabo, rimase cieco e tetraplegico dopo un incidente. Decise di recarsi in Svizzera per accedere al suicidio assistito. Marco Cappato lo accompagnò alla clinica Dignitas e poi si autodenunciò per stimolare un cambiamento legislativo. La Corte Costituzionale stabilì che l’aiuto al suicidio non è punibile in casi molto circoscritti: malattia irreversibile, sofferenze intollerabili, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e piena capacità di scelta, previa valutazione del Servizio Sanitario e di un comitato etico.

Altri casi italiani hanno avuto un impatto ancora più profondo sulla coscienza collettiva.

CASO ITALIANO – ELUANA ENGLARO (1992-2009)
Rimasta in stato vegetativo permanente dopo un incidente stradale, Eluana fu alimentata artificialmente per 17 anni. Il padre, Beppino Englaro, sostenne che la figlia non avrebbe voluto vivere in quelle condizioni. Dopo una battaglia legale durata più di un decennio, la Cassazione autorizzò la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, avvenuta in una clinica di Udine. La vicenda divise profondamente l’Italia.


CASO ITALIANO – PIERGIORGIO WELBY (2006)
Affetto da distrofia muscolare progressiva, Welby chiese pubblicamente il diritto di interrompere la ventilazione artificiale. Un medico accolse la sua richiesta, somministrandogli sedativi e staccando il respiratore. L’episodio portò a un processo, concluso con l’assoluzione del medico, e riaccese il dibattito sul diritto a “lasciarsi morire”.


Guardando oltre i confini nazionali, le differenze sono significative.

IL REGNO INTERIORE: DOVE NASCE IL VERO POTERE

Il Vero Potere è una parola che inganna, perché sembra qualcosa da afferrare, un trofeo da stringere nelle mani o una corona da indossare. Eppure, quando lo cerchi negli altri, ti accorgi che è sempre precario: comandare la vita di qualcuno è un dominio fragile, che vive soltanto finché l’altro accetta o subisce. È un potere di superficie, rumoroso, fatto di ordini e obbedienze. Ma sotto questa crosta rimane la verità che i saggi di ogni tempo hanno intuito: l’unico potere che resiste davvero è quello su di sé.

Avere in mano il proprio destino non significa controllare ogni evento, perché nessun uomo sfugge alla contingenza, agli imprevisti, al gioco del caso. Vuol dire invece saper rispondere a ciò che accade senza perdersi, restare padroni della propria direzione anche quando il vento soffia contrario. Lo stoico direbbe che il vero potere è governare le proprie passioni, mentre il buddhista parlerebbe di libertà dall’attaccamento. Due linguaggi diversi per dire la stessa cosa: il potere autentico nasce dall’interno e non ha bisogno di spettatori.

Se scendiamo sul piano della vita quotidiana, ci accorgiamo che questa forma di potere è ciò che distingue chi vive in balìa delle circostanze da chi sa trasformarle in occasione. Non è chi grida più forte a influenzare davvero, ma chi riesce a rimanere lucido in mezzo al caos. Pensiamo a una discussione: comandare sugli altri è imporsi, alzare la voce, piegare le volontà. Governare se stessi è non lasciarsi trascinare dall’ira, scegliere la parola giusta, decidere di non ferire. E in quella calma c’è una forza che chi è prigioniero dell’ego non potrà mai avere.

Il potere sugli altri può costruire imperi, ma è destinato a sgretolarsi insieme alla paura che lo sostiene. Il potere su se stessi, invece, non lo scalfisce nessuna tempesta. È silenzioso, non ha bisogno di proclami, eppure trasforma tutto ciò che tocca. È questo che rende un individuo libero, non la quantità di persone che può comandare, ma la misura in cui non è schiavo di nulla, nemmeno di sé stesso.

Nella prospettiva mistico-spirituale, il vero potere appare come un ritorno all’origine, un punto in cui l’io non è più separato dal tutto. Non è semplice autocontrollo, ma riconoscimento di una forza che attraversa l’esistenza. Chi possiede questo potere non cerca di piegare il mondo, perché sa che il mondo già scorre dentro di lui. La vera potenza è abbandonarsi senza perdersi, riconoscere nell’imprevedibile il disegno più grande, accettare che guidare se stessi significa, in fondo, lasciarsi guidare da ciò che è più alto di noi. Nel silenzio interiore si incontra un’autorità che non domina, ma illumina: un potere che non ha rivali perché non ha bisogno di vincere.

Se invece la guardiamo sul piano filosofico-politico, la questione si rovescia: che cosa accade alle società quando il potere è inteso solo come dominio sugli altri? La storia è disseminata di regni, imperi, dittature, nate con la promessa di forza assoluta e crollate perché fondate sulla paura o sull’illusione di onnipotenza. Ogni potere che non nasce dall’autonomia interiore degenera in tirannide. Una comunità è solida quando ciascuno coltiva il proprio dominio su sé stesso, e da lì costruisce il rapporto con gli altri. La libertà politica non è che un riflesso della libertà interiore: cittadini incapaci di governarsi cercano padroni, cittadini consapevoli generano democrazia. In questo senso, il potere autentico non è mai separabile dall’etica: è l’arte di reggere se stessi per poter reggere il mondo senza trasformarlo in una prigione.

Così, tra il silenzio dell’anima e il tumulto della storia, il vero potere rivela la sua natura: non l’ombra fragile del comando, ma il regno interiore, invisibile eppure incorruttibile, da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna.

Il fuoco dal cielo: liberazione o strage deliberata?

Hiroshima 

C’è una ferita aperta nella memoria della Seconda guerra mondiale che ancora oggi brucia: i bombardamenti alleati sulle città tedesche e giapponesi. Nelle narrazioni ufficiali furono operazioni necessarie, strumenti dolorosi ma inevitabili per piegare il nemico e accorciare il conflitto. Ma guardando alle rovine di Dresda o alle ceneri di Hiroshima, la domanda ritorna implacabile: si trattò davvero di scelte militari obbligate, oppure di atti di sterminio deliberato della popolazione civile?

Il fronte tedesco racconta una verità scomoda. Intere città ridotte a scheletri fumanti, decine di migliaia di vittime intrappolate nelle tempeste di fuoco, un popolo che non si ribellò al regime ma si irrigidì ancor di più. Le industrie belliche furono colpite, i trasporti resi difficili, eppure la Germania nazista non crollò per i bombardamenti. A schiacciare Berlino furono i carri armati sovietici e le divisioni americane, non le squadriglie di Lancaster e Fortezze Volanti. Il bombardamento a tappeto servì a infliggere dolore, non a cambiare il corso della guerra.

In Giappone la logica fu ancora più spietata. Le città di legno bruciarono come torce. Tokyo, Osaka, Nagoya furono incenerite in una sola notte. Poi arrivò l’orrore atomico: Hiroshima e Nagasaki cancellate in un lampo. Gli Stati Uniti sostennero che così si sarebbero salvate milioni di vite, evitando un’invasione sanguinosa. Ma documenti e testimonianze dicono altro: il Giappone era già esausto, strangolato dal blocco navale e travolto dall’offensiva sovietica. La resa era vicina. La bomba fu una scelta politica, un messaggio al mondo e soprattutto a Mosca: la nuova potenza globale deteneva un’arma assoluta.

Resta allora la questione morale, che nessuna retorica di vittoria può cancellare. Non fu genocidio nel senso tecnico del termine, ma fu pur sempre sterminio di massa, pianificato e accettato come prezzo inevitabile. Le popolazioni civili divennero bersaglio consapevole, laboratorio di una guerra totale che non conosce più confini tra chi combatte e chi subisce. Oggi, alla luce del diritto internazionale e della coscienza collettiva, non si può più fingere che fu soltanto “strategia militare”: fu terrore dal cielo, fu l’uso della paura come arma, fu la dimostrazione che anche i liberatori non esitarono a sporcarsi di sangue innocente.

La vittoria alleata rimane, e con essa la fine del nazifascismo e del militarismo giapponese. Ma dentro quella vittoria ci sono macerie che non si possono ignorare. La domanda, terribile, resta sospesa: la libertà si può davvero costruire sulle ceneri di un’intera popolazione civile?

Specializzati per non lavorare

Il paradosso degli “insegnanti per l’inclusione”: professionisti naufraghi che, dopo aver ingrassato il business dei corsi, scoprono che la scuola li vuole solo come tappabuchi. E intanto, chi dovrebbe essere incluso resta a bordo campo.



Pellegrinaggi dell’inclusione
Non sono più corsi, sono veri pellegrinaggi. Napoli–Cuneo, Bari–Treviso, Palermo–Bolzano: i nuovi cammini di Santiago dei precari con trolley. Non portano con sé rosari, ma certificati di specializzazione da 6.000 euro, spesso con il timbro dorato del Suor Orsola o con il bollino express di un’università spagnola che sforna abilitati come tapas in una taverna di Madrid.

Un’aspirante insegnante racconta con orgoglio: «In Spagna mi hanno fatto sentire importante, in aula eravamo in 200 ma il professore diceva sempre che saremmo stati il futuro della scuola italiana». Futuro sì, ma disoccupato: tornati in patria hanno trovato le graduatorie intasate e posti liberi solo a centinaia di chilometri da casa.


Erasmus del sostegno
C’è chi ironizza: «Non è stata una specializzazione, è stato un Erasmus del sostegno». Un paio di voli low-cost, qualche esame lampo, e voilà: il titolo in tasca.
Peccato che in Italia, alla prova dei fatti, il mercato sia già saturo. A Roma la prima fascia è bloccata, a Firenze e Bologna si combatte a suon di punteggi, mentre chi vuole lavorare davvero deve spingersi sulle Langhe cuneesi o sulle Prealpi trevigiane.


Badanti di lusso
Perché la verità è che la scuola non cerca filosofi, avvocati o psicologi. Cerca badanti. Pazienti, presenti e possibilmente sottopagati.
Ma qui arrivano ex professionisti: avvocati falliti, commercialisti stremati, psicologi senza pazienti, farmacisti stufi di scontrini. Un tempo fatturavano, oggi si contendono supplenze di due settimane in scuole di provincia, e devono pure ringraziare.

Un dirigente scolastico del Veneto, sorridendo amaro, li definisce: «Badanti di lusso». Con master, ma senza esperienza con un bambino di 7 anni che urla in classe.


Guerra di punteggi
Le convocazioni sono la nuova lotteria Italia. Ti chiamano alle 7 del mattino: «Vuoi una supplenza di tre giorni a 120 km da casa?». E se non accetti, il punteggio resta fermo e il tuo vicino di graduatoria ti supera.
Una docente racconta di aver cambiato quattro città in due settimane. Alla fine ha passato più ore sul Flixbus che in classe.


L’inclusione che esclude
Il paradosso brucia: chi ha speso fortune per specializzarsi finisce escluso. Alle superiori non c’è posto, alle elementari non può accedere, e intanto i bambini con la 104 aspettano un insegnante che resti almeno un mese intero.

Chi resta incluso, in realtà, è solo il business dei corsi. Un imprenditore campano del settore, a microfoni spenti, avrebbe detto: «Finché ci sono polli, io cucino».


Epilogo amaro
I docenti per l’inclusione includono se stessi: nel pubblico impiego, nel precariato, nella corsa ai punteggi. Ma non sempre includono gli alunni.
E la scuola italiana resta il teatro dei paradossi: laureati che non lavorano, specializzati che fanno da tappabuchi, e bambini che aspettano un vero sostegno.

L’unica cosa certa? Che il business dei corsi non conosce crisi.

104? Chi se ne importa: qui si includono i docenti

“Insegnanti per l’inclusione” è l’ultimo eufemismo di Valditara per una categoria che cerca la propria inclusione nel settore pubblico, tramite supplenze e corsi abilitanti di quello che, come un peso, si è chiamato finora “sostegno”. Dietro il nome accattivante si nasconde una realtà più pragmatica: un sistema che premia chi sa muoversi tra graduatorie, corsi costosissimi e cavilli burocratici, più che chi sa davvero includere.
Si tratta spesso di non giovanissimi che approdano al mondo della scuola come chi si aggrappa a un salvagente dopo il naufragio di una carriera professionale. C’è l’avvocato che dopo anni di causa persa dietro causa persa scopre che il suo talento dialettico può essere speso in classe con un ragazzino con la 104. C’è il commercialista che, tra un bilancio e l’altro, decide che spiegare la matematica a una quinta elementare è meno stressante che inseguire clienti morosi. Psicologi, farmacisti, filosofi, scienziati della comunicazione: tutti pronti a lavorare per l’inclusione, spesso senza avere la minima esperienza con bambini e ragazzi.

Fanno corsi abilitanti di migliaia di euro per ottenere una supplenza, compreso chi paga corsi universitari all’estero. Una volta, a Napoli, una classe di “inclusivi” si lamentava di quanto fosse complicato ottenere l’abilitazione; una docente raccontava di aver seguito un corso online di dieci settimane dall’Argentina, pagando quasi quanto un semestre di Erasmus, e di aver scoperto solo alla fine che il corso non valeva per la provincia in cui sperava di insegnare. Un altro raccontava di aver investito tutti i risparmi per un corso in Spagna, arrivando a Barcellona con valigia e laptop: “Alla fine mi hanno detto che per le graduatorie italiane serviva un modulo in più, di 0,5 crediti”, spiegava ridendo amaro. Si sa, quando ci sono i polli, c’è sempre chi fa il business di spennarli, se non addirittura di cuocerli allo spiedo.

Sono professionisti per cui la libera professione non paga più e trovano nella scuola la backdoor per un impiego pubblico senza concorso, funzionando il reclutamento attraverso graduatorie provinciali. Un’amica farmacista, ad esempio, mi raccontava come durante un anno di supplenze abbia iniziato a conoscere meglio la cartella elettronica scolastica che il suo software gestionale da farmacia. Alla fine, diceva ridendo, “almeno qui qualcuno mi ringrazia”. Un ex avvocato napoletano, invece, raccontava di aver spiegato diritto costituzionale a ragazzi di seconda media: “Non capivano nulla, ma almeno ero pagato per stare seduto davanti alla lavagna per sei ore”.

Non importa se un ragazzino con la 104 viene davvero incluso. Diciamolo chiaramente: prenderà la pensione con l’accompagnamento vita natural durante. Sono loro, i docenti che sostengono, molto probabilmente se stessi con lo stipendio da precari che con questo sistema riescono finalmente ad ottenere, ad includere se stessi. Fino al 2022 era possibile pure al Sud con un punteggio modesto. Poi, il Suor Orsola Benincasa, in Spagna e in Romania, ne hanno sfornati così tanti che le graduatorie sono sature pure a Roma in prima fascia. Adesso Firenze, Bologna, ma c’è chi arriva sulle lunghe alle Langhe, a Cuneo, o sulle Prealpi a Treviso. Meridionali amanti del posto fisso statale. Retrogradi. Una volta al Nord, le aziende serie che pagano e ringraziano ci sono.

Una volta, durante un colloquio in provincia di Treviso, un aspirante docente raccontava di essersi spostato da Napoli con moglie e figli, lasciando una carriera decennale in banca, pur di ottenere “la chiamata”. Raccontava di essere felice di essere stato nominato supplente per sei ore a settimana in una scuola con tre classi e venti alunni ciascuna. La passione per l’inclusione? Non si sa. Il fatto di avere un contratto pubblico, sì.

In un’altra scuola, a Cuneo, una docente raccontava di aver visto un collega arrivare con tre valigie, una per i vestiti, una per i libri, e una piena di diplomi e certificazioni. “Mi ha detto che se non avesse trovato lavoro qui, avrebbe provato le Langhe”, rideva. La sua ambizione? La sicurezza. La missione educativa? Accessoria.

Se mancano i badanti nelle scuole è perché i loro stipendi sono più alti. E intanto, tra corsi di abilitazione milionari, graduatorie intasate e professionisti disillusi che si rifugiano nel sostegno, il vero scopo dell’inclusione spesso rimane un’illusione: quel ragazzino con la 104, e tutti gli altri che avrebbero davvero bisogno di attenzione, vengono spesso lasciati alle briciole di un sistema che premia più la sopravvivenza dei docenti che il loro lavoro.

Tra un colloquio, una graduatoria e un corso di abilitazione, i veri “sostenuti” sembrano essere i docenti stessi. La scuola diventa così un palcoscenico surreale: chi dovrebbe aiutare, spesso si salva. Chi dovrebbe essere aiutato, invece, osserva e aspetta. E il salvagente? È per chi lo tiene in mano, non per chi galleggia in acqua.

Le armi segrete del fascismo: mito, verità e misteri della ricerca militare italiana (1922–1943)

Durante il Ventennio fascista, l’Italia si trovò spesso in una posizione di svantaggio tecnologico rispetto alle grandi potenze mondiali. Tuttavia, il regime cercò in diversi modi di colmare il divario, finanziando progetti militari segreti, innovazioni sperimentali e soluzioni tattiche non convenzionali. Alcuni di questi tentativi si tradussero in risultati sorprendenti; altri rimasero avvolti nel mistero o fallirono clamorosamente.

In questo articolo esploriamo le principali “armi segrete” sviluppate sotto il fascismo, tra realtà storica, propaganda e sogni (infranti) di supremazia.


I siluri a lenta corsa: il colpo da maestro della Decima MAS

Uno dei progetti più riusciti e segreti del periodo fu quello dei siluri a lenta corsa, noti come Maiali. Questi siluri “pilotati” da sommozzatori della Decima Flottiglia MAS permisero alla marina italiana di colpire obiettivi navali nemici in modo silenzioso e devastante.

Il colpo più eclatante? L’impresa di Alessandria d’Egitto del 1941, in cui furono affondate due corazzate britanniche (Queen Elizabeth e Valiant), alterando gli equilibri navali nel Mediterraneo.


Bombe a grappolo e armi proibite

L’Italia sviluppò anche prototipi di bombe a grappolo, come la A.P.10, capaci di disperdere submunizioni letali su ampie aree. Sebbene meno note delle loro controparti tedesche o americane, queste armi furono impiegate in Spagna e in Africa.

Più controverso fu l’uso effettivo di armi chimiche durante la guerra d’Etiopia, in violazione delle convenzioni internazionali. L’iprite venne impiegata per sterminare intere popolazioni e resistenze locali, lasciando una lunga ombra sulle responsabilità del regime.


Jet prima dei jet: il Campini-Caproni

Pochi sanno che l’Italia fu tra i primi paesi al mondo a far volare un aereo a reazione. Il Campini-Caproni C.C.2, decollato nel 1940, anticipava i jet tedeschi e americani, anche se con prestazioni ancora limitate. Nonostante l’innovazione, mancò il supporto industriale per trasformare il prototipo in un vantaggio bellico.


Progetti acustici e sommergibili tascabili

A La Spezia, la Regia Marina sviluppava tecnologie sonar, mine acustiche e prototipi di rilevamento subacqueo. Parallelamente si sperimentavano sottomarini tascabili e mezzi insidiosi, alcuni dei quali furono impiegati nel Mar Nero con un certo successo.


Il sogno dell’atomo: e se Fermi fosse rimasto?

Il gruppo di Enrico Fermi a Roma, detto “ragazzi di via Panisperna”, fu tra i primi al mondo a comprendere il potenziale della fissione nucleare. Tuttavia, il regime non ne comprese l’importanza strategica e Fermi, minacciato dalle leggi razziali, emigrò negli USA. L’Italia perse così l’occasione storica di partecipare alla corsa all’atomica.


Armi sperimentali e “raggio della morte”

Non mancarono progetti avvolti nel mistero, come presunti studi su raggi distruttivi, armi soniche o radioattive, sulla scia di voci simili che circolavano anche in Germania e URSS. Molto probabilmente si trattava di miti di propaganda o esperimenti ancora troppo acerbi per avere riscontri pratici.


Mappa dei progetti segreti

Dalla Liguria alla Sicilia, passando per Roma, Napoli e Tripoli, l’Italia fascista disseminò il proprio territorio di siti militari sperimentali, centri di ricerca e basi segrete. 


Conclusione: tra realtà e propaganda

Le “armi segrete” del fascismo rappresentano un paradosso storico: idee a volte geniali, ma inserite in un contesto politico e industriale inadeguato. Le poche innovazioni efficaci, come i siluri a lenta corsa, furono frutto di coraggio tattico e ingegno più che di strategia lungimirante. In altri casi, si trattò di fumo negli occhi, sogni irrealizzati o violazioni tragiche del diritto internazionale.

Resta il fascino per una stagione storica in cui la scienza, la guerra e il mito si intrecciarono in un mosaico inquietante e affascinante.


Campania, la politica in cerca di like. Calenda non ride.

Rita De Crescenzo, la tiktoker che trasforma ogni diretta in una saga popolare, è diventata improvvisamente l’oggetto del desiderio di molti partiti. La cercano quelli che hanno perso consensi, quelli che non ne hanno mai avuti e, soprattutto, quelli che hanno smarrito le idee già alla fermata del bus. Per alcuni, l’illusione è che un balletto e due slogan in rima possano sostituire un programma politico.

Il caso esplode in Campania: Rita De Crescenzo e l’influencer Napolitano Store si presentano nella sede del Consiglio Regionale, bandiera tricolore in mano, inno nazionale sparato a tutto volume, selfie a raffica e una frase che sembra un trailer di reality: “Tanto lavoro, le medicine e tante cose belle”. 
Al loro fianco, sorridente, il consigliere regionale di Azione Pasquale Di Fenza, che li accoglie come se stesse inaugurando una nuova stagione su TikTok anziché rappresentare i cittadini.

Il video diventa virale e, invece di strappare applausi, provoca un coro bipartisan di indignazione: il presidente del Consiglio regionale parla di ridicolizzazione dell’istituzione, Fratelli d’Italia accusa di “vilipendio della bandiera”, la Lega ironizza, il M5S invoca rispetto per le istituzioni. Insomma, un miracolo: tutti d’accordo, ma solo per dire che è stata una figuraccia.

E qui entra in scena Carlo Calenda. Niente foto ricordo, niente “vediamo il bicchiere mezzo pieno”: decide di espellere Di Fenza da Azione con effetto immediato. Lo fa con un post su X, tagliente come un bisturi:

 “Questo buffone che usa gli uffici del Consiglio Regionale per pantomime indecenti con personaggi improbabili e vaiasse varie, viene espulso da Azione con effetto immediato. Mi scuso con gli elettori.”

Di Fenza prova a difendersi: “Non ho ammazzato nessuno… Calenda mi ha chiamato buffone, un po’ mi ha ferito, ma forse voleva dimostrare qualcosa alla sua Roma bene.”
Peccato che il punto non fosse la geografia, ma il principio: le istituzioni non sono un set per accumulare follower.

Le scorciatoie fanno male alla politica, soprattutto a chi pensa di poterle usare come scorciatoia di carriera. Peggio ancora, logorano chi si improvvisa a fare politica come si fanno i cerchi con il fondo dei bicchieri: convinto di fare arte, e invece lascia solo aloni appiccicosi quando la festa è finita.

In questo caso, Calenda ha fatto la scelta più ovvia e giusta: ha difeso l’idea che un’assemblea elettiva non sia un palcoscenico da cabaret digitale. In tempi in cui troppi si aggrappano a “personaggi virali” per strappare consenso facile, serviva qualcuno che ricordasse che il like di oggi è la figuraccia di domani.

E per una volta, bisogna dirlo: ha avuto ragione lui.

Dalla difesa della razza a lustrascarpe di Netanyahu

Come la destra italiana è passata da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni



C’erano una volta la Patria, la sovranità, l’onore nazionale. C’erano le parole dure di chi si opponeva sia all’imperialismo americano sia all’internazionalismo sovietico. C’era una destra “terzaforzista”, che rifiutava di scegliere tra est e ovest, tra Mosca e Washington, e che talvolta flirtava con i regimi panarabisti in nome dell’anti-globalismo. Quella destra si chiamava MSI e aveva in Giorgio Almirante il suo portabandiera.

Almirante, figura controversa e storicamente ingombrante, fu segretario di redazione de “La Difesa della Razza” negli anni ’30, organo ufficiale del razzismo fascista. Dopo la guerra fondò il Movimento Sociale Italiano, raccogliendo reduci della RSI e nostalgici del regime. Un partito che si proclamava nazionale, sociale, identitario, antisistema. Rifiutava l’antifascismo come fondamento della Repubblica, denunciava le foibe, l’esodo giuliano-dalmata e il “tradimento” dei partiti del CLN.


E oggi?

Oggi quella destra è diventata Fratelli d’Italia, e il suo leader – Giorgia Meloni – bacia la mano a Netanyahu, si allinea senza una piega alle posizioni di Washington, Tel Aviv e Bruxelles, e firma impegni atlantici senza esitazioni. La sovranità è piegata ai trattati europei, l’identità nazionale è ridotta a slogan da palco, e le dichiarazioni sulla “civiltà giudaico-cristiana” fanno impallidire anche i più atlantisti dei democristiani di una volta.

Nel giro di 70 anni, la destra italiana è passata:

  • dalla difesa del sangue e della razza alla retorica “pro-Israele a prescindere”;
  • dall’antisemitismo biologico all’ebraismo come pilastro identitario dell’Occidente;
  • dall’autarchia e dalla sovranità economica al pieno appoggio al libero mercato, alla NATO e al neoliberismo.

Certo, i tempi cambiano, e ogni partito ha il diritto di rinnovarsi. Ma qui non si tratta di evoluzione, bensì di mutazione profonda, quasi genetica. Non è un cammino lineare: è un ribaltamento.

Chi una volta si proclamava erede della RSI, oggi è complice delle strategie americane in Europa e nel Mediterraneo, sostenitore senza riserve di Zelensky, e paladino dell’occidentalismo senza identità.


Dalla tribuna al TikTok: la premier-influencer

Nel frattempo, il linguaggio si è fatto spettacolo. Il contenuto ha ceduto il passo alla comunicazione istintiva. Giorgia Meloni non è solo la leader di un partito di governo: è diventata un brand, un personaggio da social, una figura che alterna citazioni di Tolkien a video ammiccanti, slogan virali e clip emozionali da centinaia di migliaia di visualizzazioni.

Matteo Renzi, che di comunicazione politica se ne intende, l’ha definita "L'influencer", sintetizzando bene il clima: la sostanza ideologica è secondaria, l’estetica digitale è tutto. La premier si rivolge al “popolo” come una creator, non come una statista: dice ciò che funziona, misura il consenso in like e visualizzazioni, e plasma il suo patriottismo su misura per l’algoritmo.

Risultato? Una leadership emotiva, epidermica, dove il patriottismo diventa intrattenimento e il consenso è questione di engagement, non di radicamento. Così, mentre l’Italia assiste a un restringimento degli spazi democratici, la retorica della “nazione sovrana” si consuma in diretta stories.


Un patriottismo usa-e-getta?

“Dalla difesa della razza a lustrascarpe di Netanyahu” non è solo una provocazione retorica. È il riassunto amaro di una parabola politica che ha barattato la coerenza ideologica con il potere, la memoria con la convenienza, la nazione con il globalismo mascherato.

Il vecchio MSI, con tutte le sue colpe, non avrebbe mai obbedito senza discutere a Bruxelles, Tel Aviv o Washington. Oggi invece, la destra “sovranista” governa con la bandiera italiana in mano e i piani NATO in tasca.

Una tragedia silenziosa: il mistero di un gesto estremo



Circa dieci anni fa, in una tranquilla zona residenziale, durante un anonimo pranzo di una giornata qualunque, si consumò una tragedia che ancora oggi resta avvolta nel silenzio e nello sgomento.

Un ragazzo alto, dal fisico scolpito, conduceva una vita semplice. Faceva l’artigiano, un lavoro onesto, manuale, quotidiano. Nessun segno apparente di disagio. Nessuna ombra visibile nei suoi gesti, nelle sue parole. Una vita che chiunque avrebbe potuto definire "normale".

Quel giorno, si alzò da tavola e disse alla madre:
«Vado a prendere una cosa in cantina.»

Passò mezz’ora, forse qualcosa in più. Non vedendolo tornare, la madre scese, pensando a una distrazione, a un guasto, a qualsiasi piccola urgenza. Ma ciò che trovò fu un’immagine che nessuna madre dovrebbe mai vedere: il figlio impiccato, con una corda legata a una trave. Un urlo spezzò il silenzio della casa, squarciando la quiete domestica in un dolore senza fine.

Nei giorni seguenti, amici e familiari si interrogarono, cercarono risposte. Esaminarono la sua vita privata e lavorativa con attenzione quasi investigativa. Ma non emerse nulla: nessuna delusione amorosa, nessun segnale di depressione, nessun fallimento economico, nessuna crisi apparente. Nessun biglietto. Nessun addio.

Solo un gesto estremo e inspiegabile.
Solo un vuoto che ha continuato a vivere nella memoria di chi lo amava.

Certe morti fanno più rumore per ciò che non dicono.
Perché lasciano sospesa una domanda:
quale dolore si può nascondere dietro il silenzio di una vita “normale”?



Commento finale

Non sempre il dolore ha un volto visibile. Molte persone portano dentro battaglie silenziose, convinte che nessuno possa capirle, o peggio, che nessuno voglia davvero ascoltare. E a volte, anche gli sguardi più attenti non bastano.

Raccontare storie come questa non significa alimentare il mistero, ma dare voce a un tema urgente e ancora troppo sottovalutato: il disagio psicologico nascosto sotto la superficie della “normalità”. Parlare, chiedere, fermarsi a osservare davvero chi ci sta accanto, può fare la differenza.

Non sempre riusciremo a salvare tutti, ma possiamo essere presenti, essere attenti, essere umani.

Se hai il sospetto che qualcuno stia soffrendo, anche se non lo dice, ascoltalo.
E se quel qualcuno sei tu, non restare solo nel buio. Chiedere aiuto è un atto di coraggio, non di debolezza. 


Religione contro Occidente: quando la Chiesa Ortodossa e il Mondo Mussulmano diranno No alla Babilonia occidentale e i suoi nuovi amori LGBTQ

Negli ultimi decenni, la richiesta delle coppie LGBTQ+ di poter celebrare i propri matrimoni anche in ambito religioso ha acceso un dibattito profondo. Per molti, il matrimonio non è solo un contratto legale, ma un sacramento, un riconoscimento spirituale e comunitario che non può essere sostituito da una semplice firma in Comune.


Perché non basta la legittimazione civile?

Per le persone credenti, il matrimonio religioso rappresenta un’unione davanti a Dio, non solo davanti alla legge. È il desiderio di una piena dignità, anche spirituale, che va oltre la tolleranza: è una richiesta di accoglienza, di integrazione nel cuore vivo della fede.


Perché molti ostacoli sembrano insormontabili?

Molte religioni — in particolare quelle abramitiche — basano il concetto di matrimonio su una visione tradizionale: uomo e donna uniti anche in vista della procreazione. Questa concezione non è solo culturale, ma dottrinale. Cambiarla significa, per molti credenti, toccare l’essenza stessa della fede.

Inoltre, le religioni spesso rivestono un ruolo conservatore: sono viste come custodi della verità eterna, non come istituzioni fluide e riformabili. In questo contesto, la pressione esterna è vissuta come minaccia o imposizione, generando reazioni di chiusura o rigetto.


Il mondo islamico e la questione LGBTQ+

Nei paesi dove l’Islam ha una funzione normativa (Iran, Arabia Saudita, Afghanistan, ecc.), l’omosessualità è considerata peccato grave, spesso anche reato. In questi contesti, immaginare un matrimonio gay in luoghi come La Mecca o Teheran è oggi impensabile.

Eppure, anche nell’Islam esistono voci dissidenti o reinterpretative, spesso emarginate o perseguitate. Ma il cambiamento, in questi casi, è quasi clandestino, più vicino a un’espressione privata che a una trasformazione pubblica e condivisa.


Chiesa Ortodossa e civiltà tradizionali: verso uno scontro simbolico

La Chiesa Ortodossa, così come molte altre realtà religiose radicate in culture tradizionali, guarda con sospetto alle rivendicazioni LGBTQ+. In Russia, ad esempio, l’alleanza tra potere politico e religione si fonda su un’identità nazionale in cui il matrimonio “naturale” è visto come un baluardo contro l’Occidente decadente.

La narrativa anti-occidentale si rafforza proprio grazie all’avanzamento dei diritti LGBTQ+: ciò che in Europa viene celebrato come progresso, altrove diventa il simbolo della “Babilonia moderna” da rifiutare, se non da distruggere.


Oltre il rifiuto: il rischio di un desiderio di annientamento

L’affermazione dei diritti LGBTQ+ in Occidente è percepita, in molte culture non occidentali, non come un progresso, ma come una provocazione morale. Alcuni movimenti fondamentalisti leggono questo processo come il segno di una civiltà decadente, immersa nei propri vizi, simile a Sodoma, Gomorra o Babilonia: città punite, secondo i testi sacri, per l’orgoglio, l'immoralità e la ribellione ai comandamenti divini.

In questi ambienti, il confronto con l’Occidente non è più solo culturale o politico, ma apocalittico: si radica la convinzione che la civiltà occidentale vada rifiutata, combattuta e, se possibile, cancellata. Questo è il vero rischio di una “crisi di rigetto” globale: che il conflitto valoriale si trasformi in un desiderio ideologico di distruzione, motivato da una visione religiosa del castigo e della purificazione.


Conclusioni

Il mondo cambia, ma non tutto cambia allo stesso ritmo. Se alcune confessioni cristiane stanno lentamente affrontando la questione LGBTQ+ con strumenti teologici e pastorali nuovi, altre religioni — e interi blocchi culturali — oppongono una resistenza che va oltre il dibattito razionale: è una questione di identità, di visione del mondo, persino di salvezza.

In questo scenario, il vero rischio non è solo il conflitto di idee, ma lo scontro di civiltà travestito da battaglia morale. Serve più che mai un dialogo profondo, capace di evitare che il rispetto delle differenze diventi odio per l’altro.



Morti di serie A, cadaveri di serie B

È curioso come la morte, che dovrebbe essere la grande livella, finisca sempre per essere usata come un manganello ideologico. Gianpaolo Pan...