La Germania stende il tappeto: la Porta di Brandeburgo come zerbino geopolitico


La Germania non ha mai smesso di inginocchiarsi: dall'espiazione sacrosanta al servilismo automatico, ha trasformato la colpa storica in una politica estera acritica. La Porta di Brandeburgo illuminata con i colori di Israele non è solidarietà: è zerbinismo istituzionalizzato.

Parlare a favore della Palestina è, oggi più che mai, un gesto che comporta rischi. Chi osa sollevare critiche verso le politiche del governo israeliano si trova spesso etichettato frettolosamente come “antisemita”, “estremista” o “fiancheggiatore del terrorismo”. Una semplificazione pericolosa, che mette a tacere il dibattito e crea un clima di intimidazione intellettuale.

Eppure, il diritto internazionale parla chiaro: la questione palestinese è una delle più complesse e irrisolte del nostro tempo. Denunciare l’occupazione militare, la colonizzazione dei territori, le condizioni disumane in cui vive un'intera popolazione non significa negare il dolore della Shoah, né tantomeno alimentare odio. Significa, semplicemente, non voltarsi dall’altra parte.

Quando il primo ministro israeliano definisce l’ONU una “palude antisemita”, dimentica forse che l’ONU è composta da quasi tutti gli Stati del mondo, con visioni diverse e sensibilità differenti. Ridurre ogni critica a un attacco antiebraico è un’operazione retorica che, purtroppo, sta diventando strategia. Ma la solidarietà non si può censurare. Non possiamo accettare che ogni voce dissenziente venga delegittimata a colpi di accuse infamanti.

C'è il rischio, oggi, che chiunque – anche chi ha sempre manifestato il massimo rispetto per il popolo ebraico – venga sospettato, schedato o etichettato solo per aver espresso una posizione scomoda. È un clima preoccupante. L’idea stessa che esista una lista di “proscrizione” per giornalisti, intellettuali o semplici cittadini che si espongono sul tema, dovrebbe allarmare chiunque abbia a cuore la libertà d’espressione.

Siamo testimoni di una tragedia lunga oltre 70 anni: un popolo privato della propria terra, della propria libertà e, in troppi casi, anche della propria dignità. Non possiamo ignorarlo solo perché farlo ci rende vulnerabili o impopolari.

Siamo Goyim, sì – termine con cui, nella tradizione ebraica, si indicano i non ebrei – ma siamo prima di tutto esseri umani che ascoltano la voce della coscienza. E la coscienza, quando è sveglia, non si inginocchia davanti alla propaganda né si lascia comprare dal silenzio.

Scegliamo, allora, di non essere complici. Anche a costo di essere fraintesi, anche a costo di pagare un prezzo personale. Perché la verità, quando fa male, è ancora più necessaria.


Il grande paradosso italiano: quando la legge sulla prostituzione alimenta l’illegalità e il turismo sessuale

Nel 1958 l’Italia decise di chiudere i bordelli con la Legge Merlin, sancendo la fine delle case di tolleranza e del coinvolgimento statale nella regolazione della prostituzione. L’intento era nobile: liberare le donne dallo sfruttamento legalizzato e tutelarne la dignità. Ma oggi, oltre sessant’anni dopo, quella legge appare come un reliquato ideologico, incapace di affrontare la complessità del presente.


Dalla legalità al sommerso: il regno dell’ipocrisia

In Italia la prostituzione non è reato, ma qualsiasi forma di organizzazione lo è: non puoi affittare un locale, non puoi lavorare insieme ad altre persone, non puoi neanche promuoverti liberamente. Puoi solo vendere sesso da sola, in silenzio, sperando di non disturbare nessuno.

Il risultato? L’intero fenomeno è stato spinto sotto il tappeto, lasciando campo libero a:

  • racket criminali,

  • sfruttamento,

  • assenza totale di diritti e tutele per chi esercita.

Lo Stato, invece di regolare, si gira dall’altra parte.


Clienti in fuga: il turismo sessuale oltreconfine

Negli ultimi decenni, migliaia di italiani hanno trovato una via d’uscita al confine: Austria, Svizzera, Slovenia e Germania hanno legalizzato e regolamentato la prostituzione, creando spazi sicuri e strutturati.


A pochi chilometri da Tarvisio, ad esempio, sorge uno dei bordelli più grandi d’Europa, il Wellcum, costruito appositamente per accogliere clienti italiani che cercano ciò che in patria è vietato. Una fuga organizzata verso un piacere che, qui, non si può neanche nominare.

Un dito medio alzato ai moralisti d’importazione, ai Savonarola d’ogni epoca, e all’ipocrisia di Stato che si illude di “combattere il degrado” cancellando i luoghi in cui il sesso è almeno visibile, e dunque controllabile.

 

Chi vince? Chi perde?

Vincono:

  • le organizzazioni criminali,

  • gli imprenditori esteri del sesso regolamentato,

  • i moralisti che si sentono eticamente superiori.

Perdono:

  • le sex worker italiane, abbandonate all’insicurezza,

  • lo Stato, che rinuncia a milioni di euro in tasse e contributi,

  • i cittadini, che vivono in un contesto privo di regole chiare.


Serve una nuova legge, non nuovi divieti

Regolamentare non significa incoraggiare, significa governare ciò che già esiste. Un approccio laico e realistico dovrebbe:

  • legalizzare e regolamentare il sex work libero e consapevole,

  • offrire diritti, tutele e percorsi di uscita,

  • distinguere la prostituzione dalla tratta,

  • combattere lo sfruttamento con strumenti moderni, non con divieti inefficaci.

Continuare a non decidere equivale a decidere per il peggio. È tempo che l’Italia affronti il tema con coraggio, pragmatismo e rispetto per tutte le parti coinvolte.


Perché l’umanità sceglie ancora Barabba? Il confine tra libertà e dogma nel Borneo e oltre

Quando mi chiedono perché, ancora oggi, l’umanità sembra scegliere Barabba invece di chiudersi nella legge e nel rigore, penso a una fila di auto che, ogni fine settimana, attraversa la frontiera tra il Brunei e la Malesia, diretta verso la città di Miri.

Il Brunei è un piccolo Sultanato incastonato nell’isola del Borneo, un territorio immerso nelle foreste tropicali dell’Asia sudorientale. È circondato dalla Malesia, uno stato più grande, ma entrambi condividono una religione dominante: l’Islam sunnita.

Nel decennio passato, il Sultano Hassanal Bolkiah ha imposto la sharia, la legge islamica più severa, applicata direttamente dal Corano, con punizioni che vanno dalle amputazioni alle lapidazioni. I cittadini del Brunei si sono adattati a questo rigido regime morale, almeno in apparenza.

Eppure, appena oltre il confine, a Miri, la vita scorre in modo molto diverso. Anche la Malesia è a maggioranza musulmana, ma la sua interpretazione della fede è meno severa: ci sono locali notturni, bar, alcool, e persino spazi sicuri per la comunità LGBTQ+. Qui la religione convive con la vita e la libertà personale.

Come i nuotatori che risalgono in superficie dopo un lungo trattenere il respiro sott’acqua, i cittadini del Brunei ogni weekend fuggono verso Miri per respirare aria di libertà.

Questa scelta – quella di Barabba, simbolo storico del compromesso umano, della fuga dalla legge severa – continua anche oggi. Non sorprende che in molte parti del mondo, dall’Iran all’Italia rinascimentale, la gente scelga la libertà, anche a costo di sfidare il potere religioso e morale.

A Firenze, molti assistettero al rogo di Savonarola: un predicatore che impose un rigore morale quasi teocratico, ma che fu prima impiccato, poi bruciato, e infine gettato nell’Arno. La sua fine violenta è l’eco storica di quel conflitto eterno tra libertà e dogma, tra carne e spirito, tra Barabba e il Cristo.

Barabba è la rappresentazione dell’umanità che preferisce la vita con tutti i suoi limiti e desideri, piuttosto che la legge rigida che nega il piacere e la libertà.

Per questo, non smetteremo mai di vedere Barabba camminare tra noi.


Chi tira linee dritte con il righello finisce male in mezzo a chi traccia solo linee curve.

La cultura non vissuta: il paradosso degli analfabeti funzionali nella società moderna

Ho pensato di chiedere a mio padre, che ha la veneranda età di 92 anni, quale argomento trattare nel mio prossimo libro. Chi meglio di lui, con la sua lunga esperienza di vita, potrebbe suggerirmi un tema che abbia il potenziale per diventare un bestseller?

Ma mentre riflettevo sulla sua vita, mi sono reso conto di una cosa che mi ha colpito profondamente. Nonostante le tante occasioni e appuntamenti dati a Napoli, in piazza Cavour, proprio nei pressi del Museo Archeologico, lui, come intere generazioni di napoletani, non ha mai messo piede dentro. Nemmeno la prima domenica del mese, quando l’ingresso è gratuito.


Questa realtà non è isolata. Nel mio territorio, nella zona vesuviana, ho incontrato persone anziane che non hanno mai visto il mare, o una donna di Madonna dell’Arco che non era mai stata a Napoli. Contadini che non conoscevano il mare, persone nate e cresciute in luoghi così vicini, eppure così lontani dalla cultura “ufficiale”.

Oggi però il problema si fa più complesso. Gli analfabeti funzionali non sono più solo persone con scarsa istruzione, ma anche individui laureati che, pur avendo studiato, non riescono a superare la superficie delle informazioni. Sanno leggere e scrivere, ma sono incapaci di pensare oltre l’ovvio, incapaci di rielaborare ciò che apprendono in modo critico e creativo.

Questi individui si lasciano facilmente influenzare da “guru” improvvisati sui social, affidandosi a chiunque offra risposte semplici, spesso a scapito del ragionamento autonomo. La cultura, invece, è quella forza che smonta, riassembla e dà senso alle informazioni in base a una coscienza critica e profonda.

La tragedia è che in una società così piena di dati e contenuti, molti restano prigionieri di abitudini mentali e automatismi, come se fossero governati da algoritmi invisibili. Si sa già quale sarà la loro risposta, e questo limita enormemente la possibilità di crescita personale e collettiva.

Ma c’è anche un lato positivo: esistono persone che, tra i social, trasmettono vera conoscenza e passione per la storia, il folklore, la scienza. Io stesso seguo la pagina Facebook del Prof. Amedeo Colella, che con le sue pillole di folklore napoletano è una vera boccata d’aria fresca in mezzo a tanta disinformazione.

Voglio portare mio padre a visitare il Museo di Piazza Cavour. Vorrei che a 92 anni vedesse, per la prima volta, quel patrimonio di arte, storia e cultura che ha sempre ignorato. Ma temo che declinerà l’invito. Come si può vivere una vita intera senza aver varcato la soglia di un luogo così importante?

Questo piccolo episodio è il simbolo di un fenomeno molto più ampio: una massa di analfabeti funzionali che si privano di esperienze fondamentali, di conoscenze che vanno ben oltre il semplice sapere.

Se vogliamo davvero cambiare le cose, dobbiamo iniziare a coltivare la cultura come esperienza, come capacità di pensiero critico, e non solo come accumulo passivo di informazioni. Solo così potremo superare il paradosso di una società che ha tutto a portata di mano, ma rinuncia a usarlo davvero.


“Piccolo è bello”: quando la paura di crescere blocca l’Italia imprenditoriale

Il mito del “piccolo è bello” accompagna decenni l’immagine dell’imprenditore italiano, ma spesso nasconde una realtà meno romantica. Non si tratta solo di una scelta consapevole o di un valore da difendere, ma di una paura diffusa: la paura di crescere, di affrontare rischi e responsabilità.


Molti piccoli negozi e imprese restano tali non per volontà, ma perché la dimensione “di sopravvivenza” è la zona di comfort. Questa paura di fare il salto verso un’impresa più grande non nasce solo da fattori esterni, come la presenza della criminalità organizzata in alcune aree, ma soprattutto da un limite mentale e culturale radicato.

La scuola, più della famiglia, ha un ruolo importante nel formare questa mentalità. La cosiddetta “legge di Jante” — che insegna a non spiccare, a non eccellere, a scegliere la mediocrità come strada più sicura — limita la spinta verso il successo e la crescita personale.

Così capita di vedere adulti che rimangono bloccati in lavori precari o a carico dei genitori, senza voglia o possibilità di fare quel salto in avanti che cambierebbe la loro vita. Non è magia nera o maledizione, ma solo la conseguenza di una cultura che premia la stasi e punisce l’ambizione.

Per uscire da questo circolo vizioso serve una presa di coscienza: il cambiamento richiede coraggio, sacrifici e responsabilità. Solo affrontando la paura e il rischio si può trasformare una piccola realtà in un’impresa di successo.



Credere in sé stessi: la vera forza contro la Legge di Jante e il destino scritto

Il segreto del successo, come ci ricorda Elon Musk, è credere in sé stessi anche quando gli altri non ci credono ancora. Questa convinzione ci spinge a sfidare la cosiddetta Legge di Jante, un codice non scritto che impone l’umiltà fino al punto di negare il valore personale, dicendo: “Tu non vali niente. A nessuno interessa ciò che pensi. La mediocrità e l'anonimato sono la scelta migliore”.


Questa mentalità può farci sentire come se il nostro destino fosse già segnato, come nel film I guardiani del destino (2011) con Matt Damon, dove gli eventi sono scritti e ineluttabili. Ma noi non siamo tram vincolati a rotaie fisse: il nostro cammino è libero e possiamo scegliere la direzione, anche quando la strada è difficile o incerta.

Spesso siamo schiavi delle cattive abitudini e delle nostre debolezze, ma questo non significa che il destino sia immutabile. Il libero arbitrio ci permette di scrivere la nostra storia passo dopo passo. Chi crede può chiedersi cosa significhi “fare la volontà di Dio” se non esiste un destino predeterminato. La risposta sta nel “come” agiamo, rispettando le regole e l’etica, come in una partita di calcio dove l’obiettivo è vincere ma senza barare.

Le difficoltà della vita sono come il terreno che oppone resistenza al seme, che però deve germogliare per vedere la luce. Questo “buon combattimento” ci forgia e ci rende più forti, preparandoci a raccogliere i frutti dei nostri sacrifici. Anche quando “Saturno è contro”, come si dice in astrologia, è necessario lavorare duro e a volte migrare in cerca di un futuro migliore, come hanno fatto Abramo, Elon Musk o molti altri imprenditori e cervelli in fuga.

Il mio desiderio personale è trovare “l’erba più verde”, e anche se non so dove Dio mi porterà, so che posso forzare la Sua mano agendo con coraggio e fede, proprio come fece il profeta Elia quando scelse di disobbedire per fare il bene. Dio non punisce chi agisce con cuore e volontà, ma benedice chi compie il bene anche contro le regole apparentemente stabilite.

Dio può far crescere l’erba più verde ovunque e può far nascere la speranza dove sembra impossibile. Quando ho affrontato un momento di estrema difficoltà, ho pregato non per me stesso, ma per la fede di mia madre. E grazie a quella preghiera, sono ancora qui a raccontare che la fede può salvare.

Credere in sé stessi, lottare contro le imposizioni e affidarsi alla fede non significa ignorare le difficoltà, ma trovare la forza di superarle e scrivere la propria storia. Noi siamo gli autori del nostro destino, e il capitolo più bello è quello che ancora dobbiamo scrivere.



Quando un capolavoro finisce al macero (e forse non è colpa tua)

Ci sono libri bellissimi che nessuno ha letto. Non perché scritti male, ma perché stampati in tre copie e ignorati da tutti. Così, un giorno, finiscono al macero. Non fa notizia, non fa scandalo. Accade ogni giorno.

Eppure, l’editore ci ha guadagnato qualcosa. Perché quasi sempre lo scrittore ha pagato per pubblicare. Fino a 5.000 euro, in certi casi. Una specie di tassa sull’illusione.
Il 99% degli autori emergenti non supera questo primo stadio. E molti di loro sono convinti che investire sul proprio libro significhi crederci. Come in una società: tu metti i soldi, l’altro (forse) il mercato.

Poi ci sono gli editori "seri". Quelli che non chiedono contributi, perché spalmano il rischio su molti titoli, come fanno le assicurazioni. Pubblicano romanzi che hanno già funzionato all’estero, saggi che cavalcano le tendenze, oppure l’ultima autobiografia di un personaggio televisivo. Insomma: meno rischio, più ritorno.

Chi pubblica per la prima volta deve affrontare numeri impietosi: il 99% degli esordienti non venderà nulla. E quel 1%?
Ah, quel famoso 1%... quello che fa il botto e paga i debiti degli altri.

Nel frattempo, le case editrici longeve sopravvivono grazie alle ristampe dei loro cavalli di battaglia. Le novità vere? Sono fiches su un tavolo da poker.

C’è poi chi sceglie l’autopubblicazione. Coraggiosi? Disillusi? Dipende. Ma senza una rete promozionale forte, senza contatti con la stampa, senza qualcuno che parli del tuo libro, si resta invisibili.
E La Repubblica non parlerà di te. A meno che tu non sia un colonnello o un generale in pensione.

Altro discorso meritano i professori universitari. Loro pubblicano i manuali per i corsisti e, nel dubbio, bocciano chi ha studiato dalle fotocopie. Un altro tipo di editoria, un altro tipo di garanzia.

E allora, a chi ci affidiamo? Alla Fortuna?

La Fortuna è bionda, severa, protestante. Cieca, oltretutto.
Non guarda in faccia a nessuno.

Rimane Quero.
Quero non è una divinità riconosciuta, né un algoritmo. È una presenza che interferisce con le coincidenze, le sincronicità, le svolte. Una specie di interruttore quantico tra un destino fallito e un’occasione trovata nel caos.

Forse non esiste. Forse abbiamo solo un biglietto della lotteria in mano.
Forse i miei cornetti napoletani non servono a niente.

Ma se Quero esiste, allora lo fa per questo: per evitare che un originale muoia da fotocopia.

Quero: il demone del successo letterario 



Il Sud, la libera professione e l'arte di arrangiarsi (male)

Nel 2003, ero un aspirante suicida senza colore politico e senza raccomandazioni, cresciuto al Sud in un’Italia che prometteva merito ma consegnava porte chiuse.


Mi ero appena laureato, e dopo una breve parentesi politica — tanto per dire che ci avevo provato — mi ritrovai solo, senza reti di protezione.

Nessun parente dipendente pubblico, nessun religioso in famiglia.
Uno zio sindacalista c’era, sì, ma con i suoi figli da sistemare: miei coetanei, ovviamente in fila prima di me.
Mio padre? Aveva perso ogni appoggio con Tangentopoli.
Andarsene? Non l’avevo nemmeno contemplato.
Mi restava la libera professione. O, meglio, la sopravvivenza a essa.

Mi rivolsi all’albo territoriale. Mi indirizzarono verso una professionista di un comune vicino. La proposta era chiara: cinque giorni a settimana, mattina e pomeriggio.
Nessun rimborso. Solo la promessa di imparare.

Ma lo studio era dominato da una collaboratrice interna, una figura grottesca, più che altro per l’anima deformata: umiliava i praticanti, li trattava come carne da tirocinio.
Resistetti fino alla primavera del 2004. Poi mollai.
Scelsi un Master, illudendomi che mi avrebbe aperto le porte del lavoro. Invece, mi ritrovai punto e a capo.

Così ripresi la pratica, questa volta con un professionista della grande città.
Cambiavo tre treni per raggiungerlo ogni giorno.
Lui, almeno, mi comprava l’abbonamento mensile.
Piccole cose che sembrano grandi quando hai niente.

Nel frattempo, mi riavvicinai alla politica. Non per passione, ma per sopravvivenza.
Scelsi la galassia post-democristiana, dove le raccomandazioni erano strutturali, dove si parlava in codice, dove si trovavano le famose maniglie.
Era un mondo fatto di passaggi segreti, di corsie preferenziali, di furbizie silenziose.
All’epoca lo consideravo l’unico spazio dove provare a esistere.

Oggi, a distanza di anni, devo rivedere quella convinzione.
Non era solo il mondo post-democristiano a funzionare così.
Anche gli altri non stavano certo a guardare: fascisti, comunisti, centristi, persino i moralisti dell’ultima ora.

Alla fine, una raccomandazione la trovai.
Mi servì per superare l’esame di Stato.
Poi mi iscrissi all’albo e iniziai a esercitare.
Non era il sogno. Ma almeno era un nome sulla porta.

Cronache di un disilluso: la mia traversata nel deserto politico italiano

Sono cresciuto in un’Italia che cambiava pelle senza cambiare il cuore. Andavo a scuola mentre gli insegnanti, tra un'ora di latino e una di storia, indottrinavano la mia generazione col cattocomunismo. Intanto cadeva il Muro di Berlino, e con esso crollava un intero sistema di valori a cui, volenti o nolenti, eravamo stati abituati a credere.

Ho vissuto l’epoca di Tangentopoli. Le bombe di Capaci e via D’Amelio. Il sangue, le lacrime e lo sconcerto. Ma anche il sarcasmo ideologico del mio professore di lettere, che sputava veleno su Berlusconi e sul suo “partito della plastica”, convinto che da lì in poi sarebbe stato solo un grande vuoto.

Intanto, il cattocomunismo dava alla luce la stagione dell’Ulivo, così pacata da risultare soporifera. Gli stessi che si riempivano la bocca di “bene comune” erano impegnati a smantellare pezzi dello Stato: l’IRI, la Cassa del Mezzogiorno, perfino il glorioso Banco di Napoli. Un colpo di spugna sulla storia industriale e finanziaria del Paese.

Fu in quegli anni che mi avvicinai al Movimento Sociale. C’era una sezione anche nel mio piccolo paese. Niente di simile alla realtà romana che frequentava la Meloni in quegli stessi anni (sono nato anche io a gennaio del ’77). Da noi, si combatteva una guerra silenziosa: vecchia guardia contro giovani rampanti. Questi ultimi guidati da un personaggio che avrebbe fatto carriera — due mandati da sindaco — per poi bloccarsi in Forza Italia, incapace di intravedere il vento che soffiava verso Fratelli d’Italia.

La mia militanza fu breve. Bastò scoprire che rubava dalla cassa del partito. Il suo stile era più da doroteo che da camerata. Riunioni importanti in salotto con pochi intimi, fuffa pubblica per tutti gli altri. Il solito teatrino. Quando c’era da impressionare l’onorevole di passaggio, si riempiva la sala. Poi si tornava al nulla.

Così passai dall’estrema destra all’antifascismo più ortodosso. Bertinotti, Cossutta, bandiere rosse e assemblee infinite. Dalla padella alla brace. Dagli sfigati neri agli sfigati rossi. Ma almeno con la certezza che nessuno, nemmeno i miei parenti, mi avrebbe mai votato se mi fossi candidato.

Ed è proprio questo che mi ha tenuto fuori dalla politica attiva: il timore della figura di merda.

Alla fine, mi sono allontanato anche dai comunisti. Ogni tanto li vado a trovare, certo, ma la passione è svanita. Con quelli della destra, invece, ho chiuso per sempre.

Mi sono laureato. E la mancanza di raccomandazioni ha presentato il conto.

Ero un uomo. Ero meridionale. Ero senza tessere, senza padrini, senza “colore”.
E così ho scelto la libera professione. Non perché fosse il mio sogno. Ma perché non c’era altro.

Non ho emigrato. Non ho mollato.
Sono rimasto.
A fare quello che fanno in tanti come me: resistere.


Sognando Montecitorio



Il professore di religione che diventò ateo

L’ho incontrato in una chiesa, dopo tanti anni. Era il mio professore di religione alle superiori, e mai mi sarei aspettato di trovarlo lì, proprio lui, che a un certo punto del nostro dialogo si è definito “ateo”.


Era lì per una messa di trigesimo, in memoria di un caro amico. Partecipava, disse, “per rispetto della famiglia”, ma senza alcuna convinzione personale. Parole fredde, quasi tecniche, che stridevano con l’atmosfera sacra del luogo e con il ricordo che avevo di lui: un insegnante appassionato, a volte persino ispirato, che parlava di fede, vangeli e speranza con l’enfasi di chi ci crede davvero.

E invece oggi racconta il cattolicesimo come una favola per bambini mai diventati adulti.

Mentre lo ascoltavo, non riuscivo a non chiedermi se allora, quand’ero suo alunno, credesse davvero in ciò che diceva. Oppure se già allora recitasse una parte, magari in cambio di uno stipendio e di una cattedra ottenuta – come spesso accade – con il beneplacito silenzioso di un vescovo amico.

In alternativa, forse è stato sincero allora e si è perduto dopo. Magari qualche libro di troppo, qualche teoria sulla casualità dell’universo, e la fede si è sgretolata sotto il peso del dubbio. Succede. Ma non per questo fa meno male vederlo così.

Da credente cattocomunista a propagandista scientista. Una parabola quasi politica, più che spirituale.

Lo salutai con una scusa, e me ne andai.

Perché negare Dio, oggi, è diventato quasi un riflesso condizionato, come negare l’evidenza delle raccomandazioni nelle selezioni pubbliche. Tutti sanno che esiste chi è davvero bravo, chi riesce grazie alla fortuna, e poi c’è la grande massa che mangia da un piatto che non ha scelto. E anche se quel piatto è imperfetto, resta comunque il proprio: sputarci sopra è un atto che puzza d’ingratitudine.

Il mio professore di religione, oggi, sputa nel piatto dove ha mangiato agli inizi della sua carriera. E questo, più del suo ateismo, è ciò che mi disturba.

Forse per questo, quando lo incontro, evito sempre l’argomento. Non per paura, ma per rispetto. Perché la fede si può perdere, ma la dignità no.


Il libro che non doveva essere scritto

Ho il PC pieno di libri già pronti per il selfpublishing. Centinaia di pagine, file ben ordinati, idee già sviluppate, parole pensate per un pubblico che forse non esiste più — o che, semplicemente, non mi interessa più raggiungere.

Eppure non riesco a pubblicarli.
Non perché non siano “abbastanza buoni”, ma perché non mi ci riconosco più.
Sono il frutto di un’altra versione di me. Uno che scriveva per affermarsi, per condividere, forse anche per spiegare. Ma ora?

Ora mi sento seduto in contemplazione. Guardo la vita scorrere e non trovo più nulla da dire. Non perché non ci sia nulla da raccontare, ma perché sento che non serve. O forse, semplicemente, non mi interessa più aggiungere rumore al rumore.

La verità?
Forse non ho più niente da dire al prossimo.
Forse sono diventato lettore, non autore. Osservatore, non oratore. E va bene così.


La scrittura come saccenza


Scrivere un libro è spesso un atto di saccenza.

Lo dico senza rancore, ma con disillusione. Il 99% degli scrittori crede di avere qualcosa da insegnare agli altri. Ma pochi hanno davvero qualcosa di così profondo da meritare d'essere condiviso. Gli altri? Riempiono scaffali. Fanno rumore.

A volte penso che la vera saggezza sia restare in silenzio.
Lasciare che ognuno impari da solo, leggendo direttamente la vita.
Perché chi sale in cattedra con troppa facilità spesso rivela solo la propria ignoranza.


E se il silenzio fosse l’opera?

E allora, perché non pubblicare proprio questo?
Un’opera senza arroganza. Un libro senza contenuto, solo contemplazione.
Una raccolta di pensieri su ciò che non vale la pena dire, su ciò che si comprende solo stando zitti.

Non per spiegare.
Non per convincere.
Ma solo per testimoniare che c’ero, e che ho imparato a tacere.


Morti di serie A, cadaveri di serie B

È curioso come la morte, che dovrebbe essere la grande livella, finisca sempre per essere usata come un manganello ideologico. Gianpaolo Pan...